www.lagelateriadellarte.it di Francesco R. Giornetta
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Poesia e Scultura in sinergia per un’emozione.

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Qualche giorno fa, nel gruppo Facebook della Rete di Storici dell’Arte, ho avuto una piacevole conversazione con  Andrea Barretta.

https://www.facebook.com/groups/593486960747141/permalink/1220959451333219/?comment_tracking=%7B%22tn%22%3A%22O%22%7D

Si parlava della capacità scenica della poesia, di come riesca ad astrarre, a spingerci verso un’immaginazione che in fin dei conti è propria dell’arte letteraria.

Quanti di noi rimangono delusi quando un libro che abbiamo letto viene riassunto in un progetto cinematografico?

La capacità di creare paesaggi, ambientazioni e finanche i volti dei personaggi che leggiamo è unica in ognuno di noi, ed oserei definirla anche effimera perché ad ogni nuova occasione si riproporrà sempre diversa.

E nella nostra discussione, la capacità scenica la contrapponevamo alla capacità, invece, della pittura, ad esempio, di rappresentare la realtà così com’è.

Leonardo avrebbe detto quel ch’ell’è.

Logicamente contestualizzavamo il momento. Quanto sopra esposto, relativamente alla pittura, è valido fino a quando la mimesi, l’aderenza alla natura, era la via da seguire.

Da quando, invece, l’artista ha avuto semaforo verde per metter in scena semplicemente uno stimolo visivo, la definizione di Bello ha virato verso qualcosa di diverso dalla mimesi; direi anzi che la stessa estetica, data la sua stretta relazione con la bellezza, doveva essere bandita da qualsiasi interpretazione critica dell’Arte.

E, per arrivare al punto di quest’articolo, parlavamo di come l’Arte (sia essa pittura o poesia) debba avere la capacità di emozionare.

Ho ripensato, allora, a qualcosa che ho visto tempo fa nella Basilica del Santo a Padova, qualcosa che cade proprio esattamente sul punto di incontro tra poesia e arte figurativa (in questo caso è la scultura quella chiamata in causa).

Un’azione sinergica tra due vettori di emozione; la prima che ti spinge ad immaginare, la seconda che concretizza l’immaginazione.

Di certo la capacità di emozionarti dipende dal tuo stato d’animo, ma quando si tratta di un argomento che prima o poi toccherà qualsiasi individuo, allora quest’azione coinvolgente muoverà le stesse corde in ognuno di noi.

Sto parlando del monumento funebre ai De Marchetti, datato 1690, dello scultore trevigiano Giovanni Comini (o Comin) e dedicato dal figlio superstite Antonio De Marchetti, al padre e al fratello, Pietro e Domenico.

A vederlo, e non può essere diversamente, ci ricorda molti dei monumenti in marmi policromi simili del periodo Barocco che si trovano nelle chiese del nostro Paese.

Lo schema compositivo è quello che riporta all’emblema del Trionfo della Morte di Bernini. Questo scheletro volante con la tromba in bocca, questo memento mori, che appunto annuncia e ci ricorda il passaggio ineludibile.

Lo troviamo, ad esempio, nel berniniano monumento funebre di Alessandro VII in San Pietro datato 1672/78.

Quindi cosa ha di speciale questo di Padova?

Il punto sta nell’iscrizione, incisa in caratteri dorati su marmo nero e tradotta in italiano su una piccola targa, malamente messa lì a fianco, stampata su un foglio di carta, poveramente incorniciata in tempi non molto lontani e appesa con un chiodo arrugginito.

E’ proprio la sinergia tra lo scritto e la scultura che scatena emozione e commozione. Nel primo senti il dolore, nel secondo lo concretizzi.

Un dolore espresso con orgoglio, però,  che prima testimonia la vita di questi personaggi chiamando i fari ispiratori del loro mestiere Ippocrate, Galeno, Avicenna rappresentato dal gallo che è anche animale sacro al vicino Esculapio, che sovrastano e sorreggono un monte di libri, a simboleggiare la conoscenza evidentemente.

Sopra la dedica, la consueta clessidra avvolta in un messaggio che dice

La fortuna divide tra uguali la gloria dei due chirurghi

Antonio Marchetti prima invita la morte a tessere gli elogi del padre e del fratello; questa risponde accontentando la supplica, ma poi conclude elogiando sé stessa.

I

Orsù morte, deposta la falce, impugna la penna, e narra le vite stroncate nel fior degli anni, che sei per compensare nell’Evo dei più validi.

II

Affermo e testimonio che in questa tomba sono contenuti i resti mortali del Cavaliere di San Marco Pietro e di Domenico De Marchetti. Eccettuati questi resti mortali, niente vi è in loro di mortale: nell’emiciclo, ove insegnavano chirurgia sui cadaveri, dalle cattedre più celebri di chirurgia e medicina, nei casi disperati di malattia, nella pubblicazione dei libri, monumenti di scienza, la città[1], la Patria, i palazzi dei Principi, tutto l’universo mai li ritennero essere mortali.

Ma proprio io, e mi vergogno nel confessarlo, ma mi vi obbliga l’amore del superstite Antonio verso il padre ed il fratello, amore che rimarrà per sempre, proprio io molto spesso stupii che fosse concesso tanto potere su me ai Marchetti[2].

III

Chi, dopo quanto sono stata obbligata a confessare, oserà dire che la morte è falsa?

Io, morte, non ho imparato ancora ad adulare le persone, né con la falce, né con gli scritti.

Anno del Signore 1690

E posizionando la Fenice sulla sommità del monumento, non manca la speranza nella resurrezione.

Un saluto



[1]
Padova

[2] che spesso liberavano dalla morte e la allontanavano dai moribondi

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Francesco R. Giornetta laureato in Storia e Tutela dei Beni Artistici e Musicali presso l'Università di Padova.

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