www.lagelateriadellarte.it di Francesco R. Giornetta
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1. Caravaggio – Breve critica comparata ascoltando Berenson, Longhi e Sgarbi

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Parte prima
Adolescenza e prime opere romane

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Testi di riferimento:
Caravaggio – R. Longhi – Editori Riuniti
Caravaggio, delle sue incongruenze e della sua fama – B. Berenson – Abscondita
Il punto di vista del cavallo – V. Sgarbi – Bompiani
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Mi sono innamorato di Caravaggio dal primo momento che l’ho visto. E’ strano, ma non ricordo di che dipinto si trattasse, probabilmente La sepoltura di Cristo ai Musei Vaticani, oramai più di 25 anni fa.

Pensavo di essermi innamorato della sua capacità di rappresentare la luce, oggi invece scopro di amare le sue ombre e di come “interrompono le figure”.
“Interrompono le figure” è un’invenzione di Roberto Longhi, probabilmente il più grande critico che l’arte abbia mai avuto.

Longhi io non sapevo nemmeno che esistesse! Purtroppo la mia è una formazione tecnica, dove la Storia dell’Arte è una citazione di passaggio (forse) in qualche altra materia.
L’ho sentito nominare per la prima volta durante una lezione di Storia dell’Arte Moderna, e collegando le due cose, l’amore per Caravaggio e la curiosità per Longhi, ho recuperato il suo libro, Caravaggio, curato da Giovanni Previtali – Editori Riuniti, 1992, e visto che c’ero ho cercato di confrontare la sua parole su Caravaggio con quelle di Bernard Berenson, un altro pilastro della critica d’arte, suo contemporaneo, anche se più anziano, ed anche lui autore di un libro sul pittore lombardo: Caravaggio – Delle sue incongruenze e della sua fama curato da Luisa Vertova – Abscondita, 2006.

Ne è venuto fuori questo scritto, nato più come un articolo da pubblicare su www.lagelateriadellarte.it che come libro a se stante.

Un articolo di “ricerca comparativa” potremmo quindi definirlo, che ha trovato un suo senso solo successivamente, quando ho capito, nel prosieguo dei miei studi accademici, la vera collocazione di questi due “mostri” nel panorama non solo della critica, ma anche della metodologia dell’arte.

Berenson, personaggio particolare, si definisce amante dell’arte, il suo lavoro di connoisseurship si manifesta attraverso opere che parlano dei pittori rinascimentali veneziani, fiorentini, dell’Italia del nord e del centro.

Non cerca coerenza nelle sue analisi, anzi secondo lui il suo perseguimento rischia di lasciare per strada pezzi di verità che ancorché incongruenti esistono comunque.

Sulla scorta del pensiero di Konrad Fiedler e della teoria della Pura Visibilità, che negherà di aver letto, dice che l’opera d’arte ha due elementi costitutivi: i valori descrittivi ed i valori illustrativi.
In verità questa è una suddivisione utile solo ai fini dell’analisi perché in sostanza lo stesso Berenson dice che sono una cosa sola.

I primi (sensazioni tattili, movimento, gestione dello spazio, colore, tono) sono quelli che devono interessare di più il critico e rendono eterna un’opera d’arte, sono quelli che lui ritrova in
Giotto e Masaccio quando parla di restituzione della plasticità, in Pollaiolo per il movimento, nei pittori umbri per la composizione spaziale o ancora nel colore e nel tono nei pittori veneti; i secondi (legati ai contenuti come ad esempio l’iconografia, i sentimenti, le connotazioni ideologiche o la storia stessa) perdono valore nel momento in cui cambia il contesto che li ha generati.

Parlare di Berenson significa anche parlare dell’Einfühlung, ossia della teoria dell’Empatia. Il fruitore dell’opera deve immedesimarsi completamente con la stessa. Nel momento in cui parla di “Ideated Sensations”, è come se l’opera d’arte solidificasse qualcosa che si sente fisicamente, significa attribuire all’opera d’arte sentimenti propri, renderla “umana”.

Questo spiega anche il suo essere refrattario all’analisi delle storiografie basate sul contesto in cui l’opera nasce. Esiste solo il rapporto diretto tra il fruitore e l’opera d’arte, qualsiasi altra analisi porta lontano dall’immedesimazione. L’unica fonte di informazione è l’opera d’arte stessa.

Non meno particolare è la figura di Longhi. E’ a lui che si deve la riscoperta di Caravaggio, che “rischiava di ridiventare l’ultimo dei superuomini cinquecenteschi, una specie di portiere di notte del Rinascimento” (Caravaggio e la sua cerchia a Milano – R. Longhi – Einaudi. pag. 19), dopo il timido interesse che si stava creando intorno a lui agli inizi del secolo scorso.

Creatore di un approccio alla critica decisamente teatrale, che va oltre l’Ekphrasis. Capacità di un linguaggio critico che attraverso le sue famose “equivalenze verbali”, trasmutano il linguaggio pittorico dell’artista in un linguaggio nuovo, letterario. Quello che l’occhio vede diventa parola scritta.

Ovviamente non è pura invenzione o sensazione, alla base c’è una profonda ricerca filologica di impostazione positivista e dai tratti caratteristici dei grandi conoscitori ottocenteschi come Morelli e Cavalcaselle, nota è la sua ammirazione per Berenson infatti (almeno fino a quando i loro rapporti non si deterioreranno).

Per Longhi l’arte è solo forma; la lettura dell’opera d’arte deve essere scevra di ogni approccio psicologico da parte del fruitore.

Il messaggio figurativo consiste nella percezione visiva e nei suoi valori formali.

I suoi scritti possiedono una grande capacità prosaica, una scrittura colta e ricercata che avvicina il suo stile a quello di un romanziere, e lo si capisce in ogni parte del suo libro, un esempio su tutti:

«La Sant’Anna, vecchia ciociara; la Madre in veste rimboccata da lavandaia, il Bambino, nudo come Dio l’ha fatto; una robusta famiglia non c’è che dire (persino i nimbi, che per forza dovevano figurare, ridotti ad anellucci dorati come la «fede» della povera gente), che si sofferma nell’androne della scuderia (dei palafrenieri?) a schiacciarvi quell’innocuo biscione da fossi. Perché buttarsi così allo sbaraglio?….»(Longhi, pag 61).

Sta descrivendo la “Madonna del Serpe” per l’altare dei Palafrenieri in San Pietro.

Infine, la ricerca non poteva dirsi completa se non “ascoltavo” anche il punto di vista di uno storico dell’arte a me contemporaneo, e la scelta non poteva che ricadere su Vittorio Sgarbi (Il punto di vista del cavallo – Bompiani, 2014), che reputo il massimo conoscitore vivente del patrimonio artistico italiano, di ogni angolo di questo Paese. Anzi la voglia di approfondire Caravaggio mi è venuta proprio ascoltandolo in una trasmissione televisiva.

Ad ogni buon modo, a chi volesse approfondire l’argomento, consiglio vivamente di leggere i libri che vi ho indicato, senza però dimenticare che le ultime note di Berenson vengono scritte tra il 1947 ed il 1949, cioè prima dell’apertura della mostra longhiana sul Caravaggio ed i caravaggeschi (Milano aprile-giugno 1951).

Il testo è diviso in tre parti:

– Adolescenza e prime opere romane

– Verso la “grande maniera personale” e le grandi tele romane

– Fuga da Roma e produzione finale

Ho impostato questo scritto sull’indice dettato da Longhi, incrociando alcuni commenti alle opere da parte di Berenson, e i punti di vista di Sgarbi, sempre attenti, puntuali ed a volte risolutivi.
Come noto, la produzione caravaggesca è abbastanza estesa, e non è assolutamente mia intenzione inserirla tutta in questo componimento. Mi interessava di più, specialmente nella prima parte, cercare di entrare in punta di piedi nelle origini della sua pittura e nelle sue caratteristiche. Cercherò di essere breve sulla parte anagrafica, specialmente quella adolescenziale, che a quan to pare è priva di eventi di rilievo e mi concentrerò sulla differenze di feelings che i “nostri” critici hanno sentito sulle opere principali dal periodo romano in poi. Spero incontri il vostro gradimento.

Da più parti mi sono arrivati suggerimenti su come un libro deve essere scritto, quali sono le sue componenti, quali sono i riferimenti e le note da inserire, in poche parole quale dovrebbe essere la struttura standard di una produzione libraria. Ho ringraziato, ma semplicemente non ne ho tenuto conto!

Francesco Rosario Giornetta

 

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Michelangelo Merisi, nasce probabilmente nell’anno della Battaglia di Lepanto (1571) a Caravaggio, piccolo centro proprio in mezzo a quello che Longhi chiama il santuario dell’arte semplice. Vale a dire il territorio racchiuso tra Milano, Bergamo, Brescia, Cremona e Lodi, luogo in cui un gruppo di pittori quali Moretto, Savoldo, Moroni, Lotto nel cinquecento e prima di loro Foppa e Borgognone, avevano dato vita ad una pittura sempre più distaccata da quella veneta, a loro confinante, una pittura in cui le ombre diventavano più marcate ed il colore più reale, ed allo stesso tempo con «… una disposizione a meglio capire la natura degli uomini e delle cose…» (Longhi)
Fin dall’inizio, dagli storiografi del seicento, al nostro Michelangelo viene attribuita una personalità popolare, intesa nel senso più negativo possibile, plebea. Soltanto nei primi anni del secolo scorso, grazie a critici come Longhi, per Caravaggio si è avuta una rivalutazione in senso positivo del personaggio.
A undici anni, e per quattro anni, è a bottega da Simone Peterzano, periodo sicuramente fecondo per la sua formazione, che avrà importanti ritorni nei suoi dipinti di qualche anno dopo. Un esempio su tutti, e lo vedremo meglio dopo, è l’approccio alla sua seconda Conversione di San Paolo, che come impianto avrà avuto sicuramente l’esempio di Moretto a Santa Maria presso San Celso a Milano.
Purtroppo Longhi, che fa un elenco nutrito di opere che sicuramente Caravaggio ha visto durante la sua formazione adolescenziale, non dà a supporto nessun immagine e, visto che siamo nell’era di internet, vi voglio mettere di seguito le immagini di quello che il critico intendeva.

 

Madonna Paesana - Moretto - Paitone - BS
Moretto
Madonna Paesana (Paitone – Brescia)

Il Sarto - Moroni
Moroni
Il Sarto (National Gallery Londra)

Savoldo Natività (Probabilmente Longhi intendeva questa copia della Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia))
Savoldo
San Matteo e l’Angelo
(Metropolitan Museum New York)

Cristo Morto
Bernardino Gatti
Cristo Morto (Louvre)

Savoldo Natività
Savoldo
Natività (Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia)

Callisto Piazza Cristo inchiodato alla Croce
Callisto Piazza
Cristo inchiodato alla Croce

 

 

E’ curioso come vedendo queste immagini, venga da pensare: sembra un Caravaggio! Dimenticandoci che tutto questo è precedente a Caravaggio, anzi veniva realizzandosi mentre il nostro artista era presente; lo stava formando.

Una formazione giovanile di rottura con il tradizionale, come tutti i giovani, fatta avendo davanti a se le opere dei Campi, del Figino, che in quel periodo stavano portando avanti una pittura di tipo naturalistico in contrapposizione a quella tradizionale e di “maniera più antica

image7.jpeg

Antonio Campi – 1577
Morte della Vergine
(Museo Parrocchiale Chiesa San Marco –   Milano)

image8.jpeg

Figino – 1586
San Matteo
(Chiesa di San Raffaele – Milano)

 

 

Annibale-Carracci-Dettaglio-Madonna-Svenuta-ParmaA Roma arriva (probabilmente tra il 1589 e 1590) dopo aver assimilato la pittura di Annibale Carracci a Parma e di Masaccio a Firenze. (Caravaggio non è un ignorante).

Guardate qui a lato il dettaglio della Madonna svenuta nella “Deposizione con la Vergine e i santi Chiara, Francesco, Maddalena e Giovanni” del 1585 di Annibale Carracci nella Chiesa dei Cappuccini a Parma. La ritroveremo tra qualche anno nella “Morte della Vergine”.

Nel Trattato del Lomazzo (1584), Masaccio viene descritto come colui che “solamente allumava, ed ombrava le figure senza contorno”, e sicuramente sul banco da lavoro del Peterzano non sarà mancata una copia di questo libro.

Gli inizi a Roma sono difficili, passa dalla bottega di Lorenzo Siciliano “che di opere grossolane tenea bottega” alloggiando forse da un certo Pandolfo Pucci, alla bottega di Antiveduto Gramatica. Si ammala e successivamente arriva presso un altro pittore, Giuseppe Cesari d’Arpino e, probabilmente, è questo il periodo in cui dipinge il Bacco malaticcio, evidentemente autoritratto adolescenziale.

Provando a lavorare per se stesso, alloggia da monsignor Fantin Petrignani.

Periodo, questo, della produzione dei quadri più noti della prima fase: “Bacco” degli Uffizi, le varie versioni de “La zingara che dà la ventura”, “Il Riposo nella Fuga in Egitto”, “Maddalena convertita”, “Il giovinetto morso dal ramarro”.

Bacco Uffizi La bona ventura 1 La Bona Ventura 2
image21.jpeg Maddalena penitente image19.jpeg

 

Finalmente si arriva all’incontro con il rivenditore di quadri a San Luigi dei Francesi, Valentino, che lo metterà in contatto con il Cardinale Dal Monte (probabilmente 1592/93)

Il disagio di Caravaggio nell’affermarsi è evidente. Nella Roma manieristica e bigotta di Sisto V, la sua pittura fedele alla realtà, tipica della provincia lombarda, ha poco spazio in cui muoversi.

A Roma non si chiedeva verità alla pittura, ma devozione o nobiltà” (Longhi)

Quindi, pittura di rottura dicevo, almeno quando la fa per se stesso. Non è interessato ai soggetti della mitologia sacra o profana, lo farà solo su imposizione o su richiesta ed in modo del tutto originale. Le sue realizzazioni, fedeli al suo credo nella pittura naturalista, specchio della realtà, metteranno in difficoltà i critici nel dare anche un titolo alle sue opere, dato che genericamente, in quella Roma, quel tipo di rappresentazioni si preferiva chiamarle con il nome di “mezze figure”, o “capocce”. (“Putto morso da racano che tiene in mano”, “Un fanciullo che monda una pera con il cortello”)

Cinquant’anni  dopo, per questi dipinti, decifrato il loro nuovo messaggio, Caravaggio verrà accusato di aver dipinto “i simili” e cioè “la povera gente…non la historia”. Non devozione, non nobiltà.

Certamente, a Roma, venne in contatto con una tecnica pittorica già in uso nel cinquecento, vale a dire l’uso dello specchio. Il suo , però, non era lo specchio del Parmigianino, o del Savoldo,

image10.jpegParmigianino
Autoritratto entro uno specchio convesso
Savoldo - Gastone di FoixSavoldo – Gastone di Foix

 

era uno specchio invisibile che rifletteva la realtà senza interferire; non vedremo mai lo specchio nei suoi dipinti, ma solo quello che esso riflette.

Un po’ alla volta Caravaggio si accorge che la figura umana non è indispensabile, poteva anche uscire dal campo, ma lo specchio avrebbe continuato a riflettere l’immagine del tavolo o del pavimento o di qualsiasi altra cosa. E questa progressiva perdita di centralità dell’uomo, che si accentuerà ancora di più con quello che viene definito il “ringagliardimento degli scuri”, porterà nuove e più pesanti critiche negative all’artista.

Mantenere questa via non lo avrebbe condotto da nessuna parte.

Prendiamo ad esempio il “Bacchino Malato“, i confronti da parte dei suoi detrattori con le opere di Michelangelo e Sansovino, apologeti del corpo umano, o di Bellini e Tiziano, magnificatori dell’uomo e della natura allo stesso modo, mettono inevidenza il contrasto con “…questo torpido e assonnato garzone di osteria romanesca” (Longhi, pag. 16)

Bacco UffiziCaravaggio
image14.jpegSansovino image13.jpegMichelangelo
image15.jpegBellini image16.jpegTiziano

image17.jpegI modelli di Caravaggio sono i ragazzi romani popolari, della classe sociale più bassa, che vengono rappresentati nella loro autenticità. Sgarbi, giocando (ma non tanto) sul fil rouge che lega Caravaggio, Longhi, Pasolini (allievo di Longhi), paragona i “ragazzi di vita” di quest’ultimo ai modelli caravaggeschi, ma paragona lo spesso Caravaggio a Pasolini, tutti e due una sorta di dottor Jeckyll e Mr Hyde, tutti e due, ancorché tacciati di debolezze private, assurgono agli onori della fama grazie alle loro opere. L’impiego di modelli provenienti dalla strada va ricercato non solo nelle possibilità economiche del Caravaggio, ma anche e forse soprattutto nell’angelismo di quegli anni (1585/90) che era di moda a Roma. La città è invasa da queste rappresentazioni, da Giambattista Pozzo a Gaspare Celio, a d’Arpino fino anche a Guido Reni a San Gregorio al Celio (immagine precedente).

image18.jpegSono giovinetti coetanei, della Roma popolare che a causa della “giovine età” hanno quella presenza ambigua che tanto ha fatto parlare, e che ha fatto scambiare più volte, ad esempio, il “Suonatore di Liuto” con una suonatrice.

Un po’ alla volta la figura umana esce dallo specchio e rimane solo il liuto o la canestra con i frutti, anche loro popolari, reali, come la natura li ha fatti. L’impianto non prevede la scelta ad uno ad uno dei soggetti da dipingere, alla mela bella e turgida viene affiancata quella bacata. Il filone della natura morta o “inferior natura” come il Rinascimento l’aveva chiamata, ritorna con Caravaggio negli ambienti romani. Si badi bene questo tipo di rappresentazioni già esistevano, solo che mancavano di verità, di descrizione naturalistica. Imperava l’asservimento al lusso, alla nobiltà. I soggetti erano bicchieri di vetro di Murano, frutta scelta e perfetta, cristalli di Boemia…

image19.jpegAltro punto su cui Caravaggio si trovò a difendersi fu la mancanza di azione nelle sue opere, di movimento nei suoi dipinti. “Caravaggio è molto osservante del vero che sempre lo tiene davanti mentre opera; fa bene una figura sola, ma nelle composizioni dell’historia,…non mi par che vi vaglino essendo impossibile di mettere in una stanza una moltitudine d’huomini che rappresentino l’historia…” (Considerazioni sulla pittura – G. Mancini – Nota 31 testo di Longhi)

Come si può definire mancante di moto il giovinetto appena morso dal ramarro. Ed aggiungo moto sia di intenzione, di sentimento: il dolore; sia fisico di movimento, la mano che si ritrae in uno scatto (dà o no l’impressione di uno scatto fulmineo?)

image20.jpegEd è perché è sempre fedele alla sua pittura “di natura” che l’urlo della Medusa, probabilmente lo stesso modello, non va oltre quello del Ragazzo morso dal Ramarro. Il dolore fisico, a meno di non finire nella stilizzazione, è solo uno. E probabilmente inconsapevolmente, anche Berenson lanciando uno dei suoi strali contro Caravaggio, paragonando l’urlo di Medusa a quello di una riproduzione della testa di un ghigliottinato avalla la capacità dell’artista nel rappresentare il dolore. “Probabilmente il Caravaggio aveva gli stessi gusti sanguinari della gente che va oggi ad assistere alle pene di morte” (Berenson, pag. 72)

MilizianoSgarbi, per contro, sottolinea come Caravaggio per la prima volta nella storia dell’arte, dipinge un soggetto non in posa, “rappresenta ciò che accade nella realtà, e lo fa mentre accade” (Sgarbi, pag. 36), paragonando il “Ragazzo morso dal ramarro” alla famosa foto del “Miliziano” cadente di Capa.

Le opere con soggetti sacri del primo Caravaggio sono rappresentazioni molto laiche, al limite del profano, ma come dice Berenson “doveva piacergli di essere originale, d’épater le bourgeois” (Berenson)

Ne è un buon esempio il “Riposo durante la fuga in Egitto”. E’ uno dei pochi dipinti in cui i personaggi sono immersi in un paesaggio esterno, che ad ogni modo, pur denotando una fine rappresentazione, risulta essere sicuramente in secondo piano rispetto al tema di per sé fuori dal comune, con la Madonna ed il Bambino in secondo piano e San Giuseppe e l’Angelo protagonisti assoluti della scena.

image21.jpegMi piace riportarvi la descrizione che del dipinto fa Berenson nel suo libro, quando parlando della modella che interpreta la Madonna, e che presumibilmente e la stessa della Maddalena penitente dice: “Qui rappresenta la Madonna alla quale un profondo sopore ha inclinato la testa su quella del Bambino, anch’egli immerso nel sonno… A sinistra, un episodio unico nella storia della pittura, e verrebbe la voglia di sapere se fu il Caravaggio stesso ad averne l’idea o se gli fu dettata da altri, letterati o poeti”, parlando dell’angelo, avvicinandolo al Correggio, lo descrive come “…una tenera e slanciata creatura con le ali semi piegate…” e paragona il paesaggio ad un idillio shakespeariano, dipinto da un artista romantico più vicino al Tintoretto che al Tiziano. Sarà una delle poche critiche positive che Berenson regalerà a Caravaggio.

I paesaggi caravaggeschi, localizzati non immaginati, assumono sempre un’importanza secondaria rispetto alla composizione, e se quelli esterni sono rarissimi, quelli interni, immersi nell’oscurità, sono avari di dettagli.

L’Angelo della Fuga è espressione della capacità del Caravaggio di rappresentare la “Grazia”, ma condizione essenziale è che essa non sia il tema dominante dell’opera.

Tre anni dopo, nel 1599, arriva la commisione da parte del banchiere Costa, per la “Giuditta che taglia la testa ad Oloferne”, opera che si va a collocare alla fine del periodo giovanile dell’artista e che in qualche modo anticipa le tematiche che saranno sviluppate nel suo ultimo periodo, quasi una premonizione.

Giuditta, convince gli anziani israeliti a non arrendersi all’invasore e si offre volontaria per risolvere la questione. Arriva all’accampamento, con la sua ancella Abra, fingendo di voler tradire il suo popolo.

Il capo dell’esercito nemico, Oloferne, la accoglie nella sua tenda. Il terzo giorno decide di invitarla al banchetto, e magari pensa anche ad un dopocena peccaminoso. Però si ubriaca e si  addormenta (questi uomini!).
Giuditta non si fa sfuggire l’occasione e decapita il generale.

Questa brevemente la storia, adesso vediamo come la rappresenta Caravaggio.

Caravaggio_-_Giuditta_che_taglia_la_testa_a_Oloferne_(1598-1599)Siamo all’interno della tenda di Oloferne, il drappo rosso sullo sfondo, tipico elemento caravaggesco, contribuisce a drammatizzare la scena, che sembra una rappresentazione teatrale.
Caravaggio sceglie il momento della decapitazione per il dipinto.
Non prima, nè dopo come di solito l’episodio veniva presentato.
Il Generale ha un corpo possente, muscoloso, ben modellato, e Giuditta?
In mezzo alla composizione, tra il Generale La_Fornarina_di_Raffaello_Sanzioche si contorce nel dolore e l’ancella che quasi indifferente, attende, da brava servitrice, con il sacco in mano dove metterà la testa del nemico, Giudittà sembra una delle incongruenze che Berenson sottolinea sempre in Caravaggio.
Questa “Fornarina del naturalismo” come la chiama Longhi contrapponendola ovviamente a quella di Raffaello, non ha il viso feroce di una vendicatrice di popoli, ma risoluto si.
Ma è questa forse la forza del messaggio? O come nella Maria di Cleofa della Sepoltura vaticana (la vedremo nella seconda parte), la posa è troppo teatrale a discapito della drammaticità della scena?

Giovane, bella, timorosa del suo stesso gesto; lo fa tendendo il più possibile le braccia, ha paura di sporcarsi; non lo vorrebbe fare, ma deve farlo, come dice Sgarbi “schifata“, sembra quasi chiedere scusa mentre sta concludendo la sua missione di mozzare la testa del Generale nemico che, a quanto pare, è l’autoritratto del ventottenne Caravaggio.
Il tutto immerso nelle tenebre che interrompono le figure (Longhi, pag. 30), in questa luce che doveva sembrare provenire da un lampo e splamarsi casualmente sulla scena.

Sono dipinti che si indirizzano ad una committenza privata, non ancora l’obbiettivo del Caravaggio, cioè la fama ed il successo che nella Roma pontificia si conquistava con la committenza chiesastica.

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Qualcuno sarà arrivato fino a questo punto?

Me lo auguro.

Nella seconda parte parlerò delle commisioni a San Luigi dei Francesi e a Santa Maria del Popolo, di come gli scuri “ringagliardiscono” ed altro ancora.

Ciao e alla seconda parte.

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Francesco R. Giornetta laureato in Storia e Tutela dei Beni Artistici e Musicali presso l'Università di Padova.

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